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giovedì 28 maggio 2015

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Gattolici praticanti. L’altra divinità di tanti cattolici: il gatto (Parte 1)

ho trovato questo testo su google, così ho voluto scriverlo!


gatto2
GATTOLICI PRATICANTI
Parte 1: la difficile arte di essere gatti al Sud
PROSSIMAMENTE (forse..)
Parte 2: il piacere di essere gatti a Roma
(con ossimoro finale: il gatto di un Mastino)

RITAGLI
Benito si chiama il mio gatto, dunque. Un nome che certamente non immaginavo sarebbe diventata pure, e quasi da subito, una garanzia. Fortuna che non cedetti alla prima tentazione: chiamarlo Adolf. Non so come sarebbe andata a finire. Oltretutto il mio quartiere, l’Africano di Roma, è pieno zeppo di  giudii; a dirla tutta, pure il mio (ex) condominio, che addirittura contemplava come coinquilini anche storici giudii deportati dai nazisti, con tanto di tatuaggio numerico sul braccio. E siccome raccontano – un reduce dai campi di concentramento soprattutto – che in quelle “scampagnate” naziste erano costretti financo a mangiare topi e che i tedeschi topi li consideravano, “topi” li chiamavano e da topi li trattavano, come minimo era indelicato rincorrere il gatto (puntualmente scappato di casa all’aprire della porta) per le scale condominiali invocando, sull’uscio dei deportati, “Adolf, te prego, torna!! Adolf, vieni qua!! Ecco, senti, qua ce so’ li croccantini… tiè… topo topo topo, Adolf, ce sta er topo, acchiappelo!!… magnatelo… corriiii”. Di certo, questo invocare “Adolf” davanti casa loro, dicendo “vieni qui che ce so’ li topi e croccantini”, l’avrebbero scambiata come minimo per una provocazione de merda. Capace pure me menavano o che finivo sui giornali come provocatore antisemita. E spiccavano un mandato d’arresto internazionale dalla Germania. O, semplicemente, m’avvelenavano il gatto. Coi giudii tutto può succedere. Questa è la storia del perchè il mio gatto non potendosi chiamare Adolf, si chiamò invece, con minori pretese, Benito.
di Antonio Margheriti Mastino
LE MANI INSANGUINATE DEL CARDINALE RATZINGER
L’altro ieri, 19 febbraio, è stato il mio compleanno. Il giorno dopo il compleanno del mio gatto, Benito: 8 anni. Se ne scrivo, non è perchè gran parte della redazione di questo sito cattolico è composta da gattofili (tant’è che più di qualcuno m’ha fatto sapere che ne avrebbe voluto scrivere qui della propria gattofilia), salvo una stravagante che si infoia per i cani randagi. È perchè mi sono accorto che per una coincidenza assai strana, tutti i cattolici di tendenza ortodossa, diciamo pure i “tradizionalisti”, i cattolici più militanti insomma, hanno questa un po’ insana passione per i gatti. Con punte di vivo entusiastico fanatismo, alle volte.
E mi sono accorto anche di un’altra cosa: uno dei personaggi che più amo, Benedetto XVI, vale a dire il Vicario di Cristo direttamente, è pure lui un gattofilo. Tutti sanno che aveva un gatto in Baviera, Chico, e che da questo quadrupede il futuro papa, mansueto in tutto, si lasciava anche graffiare a sangue le mani, e mai vi fu somiglianza più lampante fra gli uomini di curia e un felino. Persino il segretario del papa, don George, ha scritto un libro di fiabe per bambini, dove i non tanto fiabeschi protagonisti sono “Joseph e Chico”, ossia il papa e il suo gatto. Su facebook c’è una pagina molto attiva e molto battuta dagli innumerevoli “gattolici ratzingeriani” di ferro, che si chiama appunto “I gatti di papa Benedetto”.
E PAOLO VI DIEDE UN’ANIMA ALLE BESTIOLE
amici
Meglio non ricordare loro che un altro papa, che decisamente molto meno amano, Paolo VI, appena eletto al Soglio, i suoi gatti se li portò pure in Vaticano. Certi gattofili troppo tradizionalisti per non avere in gran dispitto quel Paolo VI dalla mentalità troppo laica per loro, scordano che ad aprire un discorso da allora mai chiuso, e al quale gli animalisti “gattolici” molto tengono, fu proprio papa Montini. Sull’immortalità dell’anima anche per gli animali. Infatti, in un’udienza una bambina si avvicinò a Paolo, e il papa le chiese perchè fosse così triste. La bambina gli fece sapere che le era morto il cagnolino e temeva di non rivederlo mai più. Paolo, che era di cuore mite, le disse: “il tuo cane di certo è in paradiso, dove lo ritroverai un giorno”. Gli animali hanno un’anima? Sin qui, a quel che – pare – la teologia dice, dovrebbero avere l’anima “sensibile” ma non quella soprannaturale. Ma Paolo, forse per eccesso di bontà, volle aprire questa finestrella… che noi tutti animalisti e gattofili desidereremmo essere anche un portone paradisiaco per i nostri piccoli amici.
PURE I DOTTORI DELLA CHIESA DICONO CAZZATE. SUI GATTI
A dirla tutta, pure un dottore della Chiesa, sant’Alberto Magno (se non erro), era convinto che precisamente i gatti avessero “un’anima”: “infernale” però. Anzi, a sentire lui, “erano quanto di più vicino ci fosse al Demone”. Siamo in presenza di un grande dottore della Chiesa, Alberto Magno, che ha detto una magna, colossale, immane cazzata. Capita anche ai migliori… Ma da allora l’ho sempre guardato con diffidenza e grande umana antipatia: passando davanti alla chiesa che in Roma gli è intitolata, evito sempre di entrarci, per fargli dispetto.
Per giunta, poi, solo l’altro giorno sul mio facebook ho scoperto una cosa impensata: pure un altro mio “mito” intellettuale, Vittorio Messori, e come non bastasse anche la moglie, Rosanna, pure loro sarebbero “gattolici” reo-confessi. Più amici fb me lo confermano, e uno rincara, citando un passo trovato non so dove del giornalista cattolico: “Nella scelta (della copertina di Ipotesi su Maria), non ho dimenticato di essere un ammiratore dei gatti – un gattolico praticante, mi chiama qualcuno – perché mi sembra che il Creatore si sia superato, programmando queste tigri in miniatura”. Pensavo che Messori, come talora m’ha scritto, si limitasse a prendere in prestito una tantum cani altrui, possibilmente di alto lignaggio: vale a dire provenienti dagli allevamenti di Sua Maestà Britannica. E invece pure lui… “gattolico praticante” come tutti gli altri.
Nessuno si salva fra i cattolici dell’ortodossia dalle opere e seduzione di quel piccolo meraviglioso demoniaco tiranno: il gatto. Massì… rido… rido beato, quando un altro amico, ancora più informato della segreta vita inaspettatamente silvestre e zoofila di questo nemico acidissimo e giurato e loquacissimo d’ogni fanatismo ambientalista, ecologista, salutista e persino animalista che è Messori, mi confida: “Aggiungo che -non sembri una fisima- lui e Rosanna sperano che il loro Furby sia passato a miglior vita con il trapasso e, di conseguenza, capita che gli parlino. In effetti, anche Rosanna ama i gatti!”. Annamo bene!
IL PAPA CHE SUSSURRAVA AGLI UCCELLI: PIO XII
Pio XII e il suo canarino preferito, il vecchio Gretchen
Ma forse il più animalista dei papi è Benedetto XVI: per gli animali ha una delicatezza e una simpatia spontanee e tutte teutoniche. In ogni posto dove s’è recato da cardinale e da papa, ovunque è incappato in animali d’ogni sorta (koala, pitoni, sanbernardo, scimmie, leoncini, gattoni, persino leoni impagliati),  non ha resistito alla tentazione di avvicinarli e carezzarli. È naturalmente sprovvisto d’ogni sorta di paura o repulsione anche verso quegli animali che istintivamente nell’uomo ne suscitano: quando in Australia ha visto un ragazzo con dei pitoni albini addosso, senza esitazione alcuna gli si è subito avvicinato e s’è fiondato a carezzare la pelle collosa e spirosa del serpentone albino. Entrato in un museo africano non ce l’ha fatta a resistere alla tentazione di mettere di soppiatto la mano nella crimiera di un antico leone impagliato.
Moltissimi papi hanno avuto un legame assai stretto con gli animali, ma spesso era un rapporto molto animale-uomo (e per giunta uomo-papa): distaccato, scettico sulla sensibilità delle bestie. che si limitava a sorrisi di curiosità, sguardi divertiti, talora inteneriti, a qualche flebile carezza in punta di dita. Prendi Pio XII. È famosa la sua foto impostata dove seduto nei giardini vaticani carezza ridente un agnello che gli si era accostato, uno dei tanti che circolavano liberamente nei giardini pontifici: dove, nelle sue passeggiate, uomini non ne voleva vedere (e gli operai che incappavano nel suo percorso si nascondevano dietro i cespugli, per non irritarlo), in cambio gli animali avevano il lasciapassare. Aveva, come tutti sapete, diversi canarini nel suo appartamento, che si era portato dalla nunziatura tedesca: il preferito era Gretchen, nome tedesco, naturalmente. Certe volte si faceva fotografare insieme a questa inconsueta ed intima fauna domestica: una foto lo riprende con Gretchen posato sul suo dito. Ma la cosa più curiosa era una: i suoi uccelletti svolazzavano liberi intorno a lui, specie in sala da pranzo. La storia di Gretchen, il prediletto, al quale spesso sussurrava qualche parola, è emblematica: era invecchiato insieme al suo papa. Il 10 ottobre 1958, nello stesso momento in cui il pontefice spirò a Castelgandolfo, spirò anche il suo canarino. Doveva essere, secondo me, il suo angelo custode sotto le sembianze di uccello. Chiaro che un simile amante di pennuti, guardasse con diffidenza ai gatti: infatti non ne volle mai. Per prudenza, più che altro.
I GATTI DEI DUE LEONE
Leone XII Della Genga
Taluni papi erano dei gattofili con tutte le manie tipiche del gattofilo. E anche col carattere tipico degli amanti dei gatti: tanto per cominciare, due di questi – per citarne solo due – decisero di farsi chiamare proprio “Leone”, appena eletti. E questo la dice lunga sulle loro inclinazioni feline in senso proprio e figurato. Non è nemmeno un caso che entrambi fossero dei caratteri dominanti, degli autorevoli autoritari, dal piglio imperioso, dall’incedere ieratico, dalla fierezza per il proprio rango che rasentava assai spesso la coda di paglia, tanto da intravvedere in ogni minima confidenza altrui un tentativo di lesa maestà. Parliamo di Leone XII e XIII. Ma soprattutto dell’ultimo.
Ma vi è un particolare storico meno gradevole, per noi convinti animalisti, circa i “gattolici” pontifici: i papi gattofili, infatti, erano anche ferventi cacciatori. Leone XII Della Genga, dal pontificato assai sventurato, calunniato quasi quanto nessuno benchè al fondo del cuore fosse uomo assai buono, si era portato nel Palazzo Apostolico l’intera sua collezione di fucili e archibugi d’ogni risma. Il peggio è che li usava anche, nelle scampagnate, nei giardini vaticani persino: contro volatili e anche no. E tuttavia, o forse proprio per questo, in Vaticano aveva un sua piccola colonia di gatti, che curava personalmente, e della quale quasi sempre amava circondarsi dentro le sue stanze, con grave disgrazia di tutti i sontuosi antichi arredi sensibili alle unghiate dei felini. Ma forse il particolare più commovente di questo pontificio amore felino lo spiegò beneStendhal che ereditò per via testamentaria alla morte del papa Della Genga “dei teneri cucciolotti di gatto, dolcissimi, come il loro padrone”. Ma il gatto preferito dal papa morente, un grosso gattone, quello il pontefice lo volle riservare a una celebrità del tempo, a quel gran cattolico di Chateaubriand, che in quel momento, se non erro, era ambasciatore di Francia presso il papa. E il famoso intellettuale se ne prese amorevolmente cura fino alla fine del gattone del Leone.
IL LEONE FEROCE: PAPA PECCI. E I DUE TIPI DI AMANTI DEGLI ANIMALI: ZOOFILI E CACCIATORI
Leone XIII Pecci
Leone XIII Pecci, la cui seconda attività in Vaticano dopo quella di papa era il giardiniere (e solo perchè non poteva ancora dedicarsi alla caccia, dal momento che nei palazzi apostolici vi si era auto-recluso a seguito dellaQuestione Romana), passione per la quale nevrotizzava ogni sottoposto che dovesse mettere in pratica la sua fervida e stravagante immaginazione giardinieristica, ebbene, questo papa qui si dava un gran daffare, per loro sventura, con gli animali. A modo suo: al modo, cioè, di un vecchio uomo dell’800, per giunta cacciatore: con gli animali si divertiva, ma senza sensibilità. Tranne – come vedremo – coi gatti: gli unici che il Leone trattasse da suoi pari, come loro spettava per diritto divino.
Aveva in una grande gabbia nei Giardini un grosso anziano pappagallo, assai suscettibile. Ogni volta che ci passava davanti, l’anziano papa con un sorriso sornione, felino quasi, si divertiva a stuzzicarlo con il suo bastone: cosa che faceva saltare i nervi al pappagallo che replicava stridulo con i suoi schiamazzi isterici. “Amava”, Leone, tutti gli uccelli nostrani anche. Li amava, qui pure, alla maniera del vecchio signore ottocentesco, per giunta cacciatore: gli uccelli più canterini, com’era in uso all’epoca, li accecava egli stesso, premendo con due dita contemporaneamente sui bulbi dei poveretti sino a farli implodere, perchè poi “cantassero meglio” (di disperazione); i restanti, quelli dalla scarse capacità canore, se li faceva portare al tramonto: per scegliere nel mazzo piumato quelli che si sarebbe fatti soffriggere per cena. Ne sceglieva un paio, i più in carne; gli uccelletti che avanzavano non volavano via graziati: li lasciava in pasto al suo personale palatino. Il grande vaticanista – il primo e unico vero vaticanista italiano –, Silvio Negro, raccontava tutte queste cose nei suoi memorabili libri sulla Roma papalina. Ed è evidente in quelle righe un certo dolente turbamento del giornalista per la sorte di quegli animali: quasi a volersi sfogare e un po’ per giustificare il papa “cacciatore”, allargava le braccia e sospirava amaramente: “Non c’è niente da fare, bisogna rassengnarsi: il mondo si divide in due tipi di amanti degli animali: gli zoofili e i cacciatori. Leone XIII apparteneva a questi ultimi”… e di questi aveva la “sensibilità”, se così possiamo chiamarla.
LEONE XIII CONSIDERAVA SUOI PARI SOLO I GATTI: FRA FELINI NON SI MOZZICANO
Leone e il gatto
Ma veniamo ai gatti. Ecco, l’ultimo Leone, rappresentava il gattofilo più classico e radicale. Quando era arcivescovo di Perugia era noto a tutti per la sua talare sempre cosparsa di peli bianchi: prova che si faceva camminare i gatti addosso, i quali probabilmente facevano anche uso dei suoi stessi accessori domestici: sedie, poltrone, si presume anche il letto. Tutti sapevano che il cardinale Pecci pranzava e cenava con i gatti accovacciati in grembo, anche perchè, unendo l’utile al dilettevole, scaldavano. Una volta, da papa, in presenza di ospiti un suo antico segretario ricordò un aneddoto: “Vostra Santità ricorderà che una volta pranzando col gatto sulle ginocchia, in un momento di vostra distrazione, la bestiola le ripulì in men che non si dica il piatto”. Leone, al quale non piacevano affatto queste confidenze sconvenienti che facessero riferimento alla sua augusta persona, e men che meno a quando era solo “Gioacchino Pecci” (reputava che dal momento in cui era asceso al Soglio “Gioacchino Pecci non esisteva più né mai era esistito”) tanto era il senso grandioso che aveva della sua carica, fulminò con uno sguardo dei suoi, gelidi e terrificanti, il malcapitato avventato segretario. Ma era vero che vivesse circondato da gatti, e che con loro avesse un rapporto molto fisico, e, naturalmente, questi a momento opportuno, essendo pur sempre gatti, lo fregavano senza misericordia. E guardacaso proprio con i gatti e solo con questi misteriosi animali, papa Leone XIII aveva un rapporto da pari a pari, di rispetto e condivisione, come con nessun altro animale o persona: anche perchè, i gatti, non gli avrebbero permesso le confidenze e le insolenze, quando non proprio le inconsapevoli crudeltà, che riservava a tutti gli altri animali che lo circondavano. Lui sarà stato pure il Signor Cardinale Pecci futuro Vicario di Cristo, ma i gatti erano consapevoli di essere stati addirittura per secoli la Divinità stessa, dinanzi alla quale si erano prostrati i faraoni, i re dei re. E in questo non si sentivano affatto, per reminiscenza naturale e istintiva, neppure di un gradino sotto di lui. Semmai, c’era un rapporto di colleganza: entrambi, Leone e gatti, erano ambedue formidabili, infallibili, spietati cacciatori. Solo per questo gli era concessa la loro benevola lieve confidenza. Ma tuttavia restavano di due ranghi diversi: l’uno era solo un mortale Vicario della Divinità, loro erano stati la divinità in persona.
GATTO DOMESTICO? NO, DOMESTICI DEL GATTO
Ormai a Benedetto portano sempre i gatti: è il mezzo più sicuro per attrarre l’attenzione del papa e avvicinarlo
Ma veniamo ai gatti con padroni meno sbrilluccicanti. Con padroni comuni mortali. I nostri gatti. Ecco, già abbiamo commesso il primo errore: “padroni”. Siamo sicuri che ne abbiano?, che persino ci considerino tali? Tutto nel loro comportamento fa pensare che no. E se proprio vogliamo essere sinceri, ammettiamolo: a ognuno di noi è venuto il sospetto che le cose stanno a rovescio: lentamente ma inesorabilmente, mentendo sempre, dissimulando, ipocrita come nessuno, egli, il Felis Silvestris Catus domesticus, si è impadronito prima della nostra poltrona, poi del nostro letto, quindi di tutta la casa, con annessi terrazzi e giardini, e talvolta pure, bulimico e avido com’è, dei tetti; subito dopo è passato a impossessarsi di tutta la nostra attenzione, del nostro tempo. Infine della nostra vita. In due parole: è diventato lui il nostro padrone. Fra mille smorfie, sempre con la pietra in tasca, e folate di fumo negli occhi chiamate “fusa”, ci ha resi tutti suoi schiavi. E il peggio del suo incantesimo non sta qui, è nel fatto che verso di lui siamo diventati schifosamente codini, cupidi di servilismo, lecchini per captaptio benevolentiae, per non alterare il suo labilissimo, volubilissimo carattere, già di per sè umbratile, stizzoso, imprevedibile. Cosa c’è di più divino e diabolico di questo? Fateci caso: si comporta nei nostri confronti come un vero semidio, anzi, proprio come una di quelle divinità capricciose dell’olimpo (senza mai perdere, però, al contrario di quelle, la decenza e la dignità). E noi a tutto ciò rispondiamo come ferventi servi di Dio: da rassegnati fedeli soggetti ai lampi e ai tuoni, alle improvvise folate gelide e all’altrettanto improvviso radium claritatis dei suoi umori mutevoli. Invece di sfancularlo come meriterebbe! Non ce ne accorgiamo più: ma invochiamo da lui, con mille gesti, liturgie, riti propiziatori la sua misericordia, la sua condiscendenza, il perdono persino per le (presuntissime) “offese”; invochiamo il suo divertimento, lo preghiamo di agire e interagire con noi. Come fosse un Dio. Esattamente quello che i cani fanno con noi, noi lo facciamo con i gatti. Forse è per questo che cani è gatti si guardano in cagnesco: sono di religioni diverse, hanno un dio diverso.
Una sera dovevo portare a casa una mia conquista. Un po’ scocciata, già allergica alla sola idea di trovarselo sul letto, esclamò: “hai un gatto domestico?”. Ma no, non ti preoccupare: sono solo il “domestico del gatto”. L’avessi mai invitata questa anti-gattara: brutti quarti d’ora passò quella povera donna con Benito… che aveva subdorato la sua ostilità. Ma di questo vi dirò nel prossimo articolo.
VOLEVO CHIAMARE IL MIO GATTO ADOLF. PURTROPPO IL CONDOMINIO ERA PIENO DI GIUDEI (E QUALCHE DEPORTATO)
Benito, 8 anni, il gatto del Mastino, in braccio al suo domestico: sempre il Mastino
Ma stiamo divagando. Ora, sui gatti potremmo scrivere cose all’infinito, potremmo citare quanto su di loro han scritto quasi tutti i massimi geni politici, letterari, scientifici, i santi persino, che come tutti si sono lasciati incastrare e stregare da questo divino e malefico quadrupede. E che, come tutti, sono diventati loro famigli, servi, schiavi infine. Sino a costringere fior di premi Nobel, magari per la letteratura, a sperperare il loro tempo prezioso e aureo inchiostro a raccontare le gesta talora banalissime dei loro padroni e muse, i gatti; sino a degradarsi a scrivere pur’essi la loro sacra legenda aurea sul rispettivo divino Felis Silvestris Catus.
Ecco, onde evitare di impelagarci in questo mare magno di inchiostro servile e agiografico, preferisco parlare della mia esperienza digattolico praticante, di ciò che ho potuto osservare sul mio gatto.
Benito si chiama, dunque. Un nome che certamente non immaginavo sarebbe diventata pure, e quasi da subito, una garanzia. Fortuna che non cedetti alla prima tentazione: chiamarlo Adolf. Non so come sarebbe andata a finire. Oltretutto il mio quartiere, l’Africano di Roma, è pieno zeppo de giudii; a dirla tutta, pure il mio (ex) condominio, che addirittura contemplava come coinquilini anche storici giudii deportati dai nazisti, con tanto di tatuaggio numerico sul braccio. E siccome raccontano – un reduce dai campi di concentramento soprattutto – che in quelle “scampagnate” naziste erano costretti financo a mangiare topi e che i tedeschi topi li consideravano, “topi” li chiamavano e da topi li trattavano, come minimo era indelicato rincorrere il gatto (puntualmente scappato di casa all’aprire della porta) per le scale condominiali invocando, sull’uscio dei deportati, “Adolf, te prego, torna!! Adolf, vieni qua!! Ecco, senti, qua ce so’ li croccantini… tiè… topo topo topo, Adolf, ce sta er topo, acchiappelo!!… magnatelo… corriiii”. Di certo, questo invocare il ritorno di “Adolf” davanti casa loro, dicendo “viè qua che ce so’ li topi e croccantini”, l’avrebbero scambiata come minimo per una provocazione de merda. Capace pure me menavano o che finivo sui giornali come provocatore antisemita. E spiccavano un mandato d’arresto internazionale dalla Germania. O, semplicemente, m’avvelenavano il gatto. Coi giudii tutto può succedere. Questa è la storia del perchè il mio gatto non potendosi chiamare Adolf, si chiamò invece, con minori pretese, Benito. Un altro Benito, tanti anni prima, “antisemita riluttante” aveva avuto importanti amanti giudaiche: una era quella vecchia megera della Sarfatti. L’incidente razziale probabilmente sarebbe stato così evitato.
IL GATTO “ANTIFASCISTA” DI MUSSOLINI. PURE LUI… UN GATTOFILO!
Il bel libro “I gatto del potere”
A proposito di Mussolini. Scopro proprio adesso che vi è la storia esilarante di un gatto immaginario del duce, che ha delle eccentricità: tiene un diario ed è lievemente antifascista. Il titolo del libercolo è emblematico: La mia vita col Puzzone. Diario di Tobia, il gatto di Mussolini. Ma quello che mi ha meravigliato di più è scoprire, leggendo il bel libro di Marina Alberghini,Gatti di potere, storia di tutti i gatti dei potenti del mondo, che per davvero il nostro buon Duce era un gattofilo, che curava personalmente il suo gatto, che persino si spingeva (e qui si dimostra afflitto da un gravissimo sintomo della gattofilia più radicale) ad appanderne il ritratto nel suo studio di palazzo Venezia. Giacchè è un libro che consiglio a tutti igattolici praticanti, anche perchè si parla di gatti papali, permettetemi di riportare qui pari pari una curiosa recensione del libro:

Dietro ogni personaggio famoso c’è un grande gatto. Mici illustri della storia in un libro di Marina Alberghini: tante le curiosità e le sorprese.

Autonomo, opportunista, fiero, portatore di iatture se, per una mera casualita’ della vita, il suo pelo e’ nero come la notte. Sono molti gli aggettivi e gli epiteti che, a torto o a ragione, nel corso dei secoli si sono guadagnati i gatti, di cui proprio oggi – venerdi’ 17 febbraio, in barba a tutte le superstizioni – ricorre la festa nazionale, istituita nel 1990. Antagonisti per eccellenza dei cani, considerati fedeli amici dell’uomo, le piccole ”palle di pelo” che in milioni frequentano le nostre case, mai pero’ finora erano state definite ”di potere”. Lo fa Marina Alberghini, ‘storica felina’ che vive con tredici mici e due cani, nel libro ”Gatti di potere”, edito da Mursia ( 11 euro). Gatti di corte cerimoniosi e dediti a rituali raffinati, gatti devoti che si appartano nell’ombra e mandano silenziosi messaggi fra chiostri e penombre vaticane, gatti politici che riescono a esprimere ai massimi livelli una dote caratteristica comune a tutti i felini: la diplomazia. Sono loro i protagonisti del testo che mescola realta’ e finzione, citazioni e biografie, testimonianze pittoriche e fotografiche, mentre sul fondo la Storia scorre, dall’Illuminismo fino all’eta’ contemporanea, in una sorta di viaggio fatato nel tempo, accompagnati da fusa e miagolii. Un’esaltazione, un affresco arguto dei cacciatori-di-topi che con le loro qualita’ di consiglieri e protettori avrebbero avuto un ruolo importante, se non fondamentale, ad esempio nella vita di Caterina de’ Medici, nelle scelte politiche dello zar Nicola II e in quelle finemente strategiche del cardinal Richelieu oppure nel percorso spirituale del profeta Maometto. ”Dietro ogni grande Uomo, c’e’ stato un grande Gatto che ha mosso le fila della Storia e ha portato al potere il
Tobia, il gatto lievemente antifascita di Mussolini
suo amico umano. Dalla regina Vittoria a papa Leone XII, daLenin a Rosa Luxembourg, daLincoln a Churchill: tutti i grandi della Terra hanno avuto gatti astuti consiglieri”, si legge in copertina. E tanti sono i mici diventati famosi, per merito o a causa dei loro amici umani: chi non ricorda, ad esempio in tempi recenti, Socks, l’inquilino a quattro zampe bianco e nero della Casa Bianca ai tempi di Bill Clinton? Del resto a guardare i numeri, sembra che gli animali domestici siano una vera e propria passione per i presidenti degli Stati Uniti: in oltre due secoli solo in tre (Millard Fillmore, Franklin Pierce e Chester Arthur) non si sono circondati dell’affetto e della compagnia di un quadrupede. ”La prima cosa che faccio ogni mattina? Do da mangiare ai mici”, era solito dire George W. Bush. Tra i felini di italiche origini, c’e’ il gatto di Mussolini, tanto amato dal Duce da farne collocare un suo ritratto nella Sala del Mappamondo di Palazzo Venezia. ”Si puo’ obiettare – ironizza l’autrice – che Tobia non lo aveva certo consigliato per il meglio, ma probabilmente anche lui non aveva voluto inimicarsi uno come Hitler”. Insomma, a vederli cosi’ tutti insieme, uno dopo l’altro, coi loro nomi altisonanti o semplici nomignoli, i gatti di questo libro incutono un po’ di soggezione. E allora, forse val la pena seguire il consiglio dell’autrice: ”Ai gatti di Potere di ieri, di oggi e di domani… meglio tenerseli buoni!”.
NEL PROFONDO SUD I GATTI COME I PRIMI CRISTIANI A ROMA
Dal profondo Sud, dove sono cresciuto, mi son portato dietro in città un ricordo sgradevole. Terra superstiziosa e magica per antonomasia, patria dei tarantati, il Salento, specie nella sua popolazione ancora impolverata di terra rossa, fra i reduci della civiltà contadina, qui e fra tutti questi, il gatto gode di pessima reputazione. Senza un apparente motivo. Lo odiano proprio. E lo perseguitano, maltrattano, uccidono in modo barbaro, avvelenano. E purtuttavia non si estingue mai: da sempre i gatti si ostinano a saltellare, mimetizzarsi, bivaccare, talora rubacchiare e defecare nei cortili di case così ostili (nei paesi del Salento tutte le case hanno nella parte posteriore un grande orto, e gli orti di tutte le case sono attaccati l’uno all’altro); più viene cacciato, più è sterminato e, misteriosamente, più si moltiplica.
Mi ricorda Tertulliano, quando ammoniva e sfidava i romani che perseguitavano i primi cristiani, accusati di cose calunniose che più tardi questi, usciti vincenti, imputeranno ai gatti perseguitandoli a loro volta: “Più ci falcidiate e più ci moltiplicheremo: il nostro sangue è semenza. E riempiamo tutti i vostri luoghi pubblici,senza ve ne accorgiate. Se scomparissimo dal vostro senato, dal foro, dalle biblioteche, dalla strade, dalle terme di Roma, oh romani!, voi allora avreste paura della vostra solitudine!”.
Sembra una stirpe divina che per un incantesimo, una volontà oscura degli arcana imperia, è condannata a sopravvivere e moltiplicarsi, a dominare la terra anche laddove non riesce a dominare i cuori degli uomini. Sembrano certe volte l’araba fenice che rinasce dalle sue stesse ceneri nell’esatto punto dove si è incenerita: il loro “sangue è semenza”, avrebbe concluso Tertulliano. Che fosse quella leggenda metropolitana ma antichissima che vorrebbe il gatto come possessore di 7 vite? Nel profondo Sud i gatti sono come i primi cristiani; anche perchè il Sud, come la Roma di quel tempo, è rimasto profondamente pagano.
EDUCAZIONE SENTIMENTALE ALL’ODIO DEI GATTI DI UN BAMBINO DEL PROFONDO SUD: IO
Difficilmente una famiglia del Sud terrà in casa un gatto. È visto di malocchio chi ne tiene uno: cominciano a considerarti strano, un tipo poco affidabile, uno sporcaccione soprattutto, uno che prende (orrore degli orrori) gli animali in mano, uno che ha la casa che puzza di gatti, che si siede dove si son seduti loro, che tocca le altre cose contaminandole dopo aver toccato questo essere immondo, che ha, persino, “tutti i virus nel suo fiato”, manco fosse ‘na fagottata de merda de un tossico plebeo. Tutte cose che mi sono sentito ripetere fin da piccolo. Cose che continuano a dire di quei pochi coraggiosi spiriti liberi, che andando controcorrente, nel Salento, quei meravigliosi esseri decidono di tenerseli comunque in casa.
Chi viene dal mondo contadino ha il cuore duro, considera gli animali roba che deve stare al massimo nei cortili; oggetti, tutto sommato; per il contadino erano strumenti di lavoro inanimati, e come tali li trattava; al massimo, i più umani di loro, li vedevano come stolidi esseri viventi da maneggiare come tali, da guardare con qualche interesse solo qualora si prestassero ad assomigliare agli uomini, facendogli il verso. E siccome il gatto non si presta alle pagliacciate e alle imitazioni da circo equestre; siccome strumento di lavoro non è mai stato; siccome è animale che se la tira, dato che ogni fatica gli puzza e il lavoro gli è estraneo e gli piace starsene con la panza al sole (meglio il termosifone) tutto il giorno senza fare un beato cazzo, e mangiare a sgrascio e ut amore dei con l’aria di farci un favore addirittura; stante tutte queste cose, per l’uomo di mentalità contadina, ecco che il gatto non ha alcuna “utilità”. E se una “cosa” non è utile è “dannosa”. Quindi è un parassita. Un profittatore. Che non è manco capace di essere “fedele come il cane”, dal momento che è “razza traditora”, e dunque ama saggiamente farsi solo e solamente gli stracazzi suoi.
IL GATTO È “TRADITORE”? E NO, AMICI MIEI: SEMPLICEMENTE È LIBERO NEL CUORE
SIMULAZIONE
Pochi, fra questa gente feroce per riflesso condizionato di antiche rozze avidità contadine, capiscono la delicata natura di questo animale sofisticato. Pochi percepiscono che tutto quel po’ po’ di qualità sinistre che gli tributano, sono in realtà una sola cosa: la storia e la dignità di un animale nato libero, che resta libero in ogni caso, anche imprigionato, vessato: perchè è libero nel cuore. Perchè è saggio. Perchè scruta e riesce a decifrare rettamente gli animi umani. Perchè è maledettamente intelligente, come tutte le persone libere nel cuore.
Controverso, certo, persino scandaloso nella sua ostinata e ostentata libertà: scandaloso come lo sono – dinanzi alla stolta, caparbia parzialità del mondo – anche tutte le persone intelligenti e sagge. Perciò libere. Esattamente quello che molte volte Cristo ha chiesto a noi: colmare di libertà ogni nascondiglio del cuore… ma purtroppo noi non siamo gatti.
DISSIMULAZIONE
E per questa libertà nell’anima il gatto è destinato a non essere compreso dagli spiriti volgari, troppo legati alla materia, al possedere, agli schiavi delle cose del mondo. In questo il gatto è un esempio di autentico spirito cristiano. Sì, l’ho detto! Se proprio i grandi pensatori e romanzieri, cioè quelli più legati alle idee, e cioè a quanto c’è di più leggero, volatile, immateriale, metafisico e perciò spirituale ante litteram, se proprio questi qui e non invece i potenti avidi o, per dirne una, i banchieri strozzini, amano più d’altri i gatti, qualcosa vorrà dire: è una affinità elettiva, un incontro fra spiriti. Un’allenza delicata e discreta, tacita, com’è sempre fra esseri di questa natura, come sempre è l’amicizia gentile con un gatto. Non posso dimenticare la prima intervista importante che fecero anni fa a Mario Monti, l’uomo materiale per eccellenza, l’uomo delle banche, la cui mente vive di calcoli e il cuore di nebbie. La prima cosa che si sentì in dovere di non dire e se credeva in Dio; la prima che invece si sentì di dire era che “se proprio me lo chiedete, ebbene sì, sono superstizioso: per esempio con i gatti neri, specie se mi tagliano la strada” (e Dio volesse!!!). Guardacaso. Poi dicono che i gatti sono demoni: sta a vedere che confermano la teoria repubblichina (da Repubblica, cioè) che Monti è Gesù Cristo. Che cane!
DEI PICCOLI SOVRANI CHE HANNO NASCOSTO NEL CUORE IL LORO REGNO
Se uno il carisma non ce l’ha… non se lo può dare!
A proposito di cani, sempre nel Salento, spesso le famiglie prendono un cane da relegare nel cortile a un solo scopo: aggredire e scacciare i poveri gatti raminghi e apparentemente “randagi” (ma sempre molto ordinati, puliti, decorosi) che hanno la pessima idea di passare da quel cortile. Nessuno li vuole, neppure di passaggio, nei cortini: perchè fanno la cacca nella terra, dicono, perchè possono (santa immaginazione!) rubare cibaglie varie, perchè possono urinarci, perchè possono dormirci (ma se “non possono” fare queste cose naturali da nessuna parte, dove le devono fare allora ‘sti poveracci?!), perchè in definitiva sono, il demonio solo sa perchè, “antipatici”. Perchè vivono. Hanno questa imperdonabile colpa: ostinarsi a vivere. Non cedere né piegarsi a questo sopruso irragionevole di voler negare aria e acqua e terra alla loro essenza vitale, a questo sacrilegio continuo verso la loro antica divinità; non rassegnarsi al vilipendio della loro natura specialissima; allo svillanamento della naturale loro maestà lesa senza riguardo alcuno; quella regalità piena di decoro che hanno nel sangue e che pretende rispetto per diritto divino. Piccoli re che nel profondo Sud sono sempre in fuga, insieme alle povere e semplici insegne del loro status… esule e nomade sì, ma decaduto mai; piccoli splendidi sovrani, spodestati, senza terra e senza requie. In continuo tristoesiglio. Un regno il loro che esisterà sempre, anche senza terra, perchè quel mondo che gli serve abita nel loro cuore. Libero.
QUEL 10 AGOSTO 2006 CHE MI SCOPPIÒ IL CUORE: IL MASSACRO DI UN GATTINO
Ricordo un agosto, che mi fa male ricordare. Un 10 agosto del 2006. Profondo Sud. Ero già gattofilo, avevo già Benito. E quel giorno lo ricordo per una cosa: avevo appena fatto la conoscenza con una tipa destinata di lì a poco a diventare la mia amante. E ancora dopo clandestina convivente. Non è questo che mi fa male. Quello stesso pomeriggio, sento un macello nel giardino, il cane dei miei che abbaia come un ossesso, vedo i miei parenti rabbrividire, mia madre gridare sulle scale che davano sull’orto del vecchio vicino. Un ultraottantenne morto la scorsa estate. Sento anche il miagolio disperato, straziato, sgomento di un gattino. Un gattino di forse neppure 3 mesi che era caduto nel giardino del vecchio. E il vecchio, come era sua abitudine, da quel contadino arcaico e avido e materiale fin nelle midolla qual era, lo aveva avvicinato e con una paletta di ferro gli aveva lentamente sfracellato con colpi successivi la testa, mentre il gattino disperato cercava inutilmente di salvarsi la vita. Quando ci penso mi sale ancora la pressione e mi scendono le lacrime.
Quella storia, quell’immagine che non ho visto, che non ho voluto vedere, ma che mi hanno raccontato, mi ha rotto il cuore. Mi ha inferocito per giorni (tanto che i miei a malapena riuscivano a tenermi dalla smania di spezzare il collo al vecchio). Mi ha reso insonne per settimane. Mi ossessiona e mi tortura come una coltello rigirato nel mio fegato tuttora. Ho odiato profondamente quel vecchio. Quando lo trovammo questa estate steso per terra moribondo, nello stesso giardino dove aveva massacrato il gatto, nello stesso giorno di agosto, non mi sono mai perdonato di averne provato pietà. Vedevo la morte nei suoi occhi: aveva sbattutto la testa per terra rompendosela. Come l’aveva rotta al gattino. Fu questa nemesi divina quanto mai a privare di senso un mio eventuale sussulto di gioia guardando in faccia adesso la sua agonia squallida, che se lo trascinava lentissimamente all’inferno. Gli recitai persino le preghiere.
UN AMORE NATO SOTTO LA CATTIVA STELLA DI UN QUASI DEICIDIO
Ma dicevo dell’altro evento di quel giorno: un amore… amore e morte, eros e tanathos sempre in compagnia vanno e vengono. Poche ore prima avevo conosciuto la mia futura amante dicevo, e ci eravamo accordati di rivederci a Roma, in riservatezza. Poche ore prima della tragedia di quel piccolo essere divino: il gattino massacrato. Poco prima il cuore pieno di passione e gioia, poco dopo pieno di dolore e odio. Un rapporto amoroso che nasceva in contemporanea a un quasi deicidio, a un sacrilegio infame che gridava vendetta al Creatore. Mi ricordai i versi di Cesare Pavese inDialoghi con Leucò: “Non si levano impunemente gli occhi ad una Dea. Neppure alla quercia, la regina delle cime”. Per me, dentro e fuori la metafora, quella dea e quella quercia “regina delle cime”, era il gatto: l’essere più perfetto, in ogni particolare fisico e psicologico, e anche nel suo rapporto con l’uomo, che proprio il Dio di Cristo aveva creato. Lo scrive pure Messori… Mi dissi allora: questo mio amore di oggi “nasce sotto una cattivissima stella”. E fu davvero poi un rapporto funesto, terrificante, violento, senza misericordia. Cannibale. Il sangue innocente, nobilissimo e sacro, versato da gattino indifeso, esigeva la sua riparazione nella vendetta tremenda, che ricadava sulla testa di tutti i testimoni di quel suo osceno baratro di sventura, comprensibile per chiunque ma non per lui e la sua stirpe.
ENRICO MATTEI NON POTE’ DIMENTICARE…
Enrico Mattei
Quando penso a questo fatto, mi ricordo anche diEnrico Mattei. Il fondatore dell’Eni. Questo omone virile, enorme, potentissimo, spegiudicato. Aveva la passione per i cani di razza di grossa taglia. E ogni mattino gli portava il pappone. Racconta allora Mattei a Enzo Biagi:
Un giorno pioveva a dirotto e faceva freddo. Portai un ciotolone di carne ai cani. Si precipitarono a mangiare. All’improvviso spuntò non so da dove un gattino, tutto bagnato, infreddolito, affamato. Che piccolo com’era non sapeva cosa stava per fare. Prima che potessi fare qualunque cosa, il gattino per istinto si avvicinò alla ciotola dei cani per raccattare qualcosa pure lui… e un cane con una zampata fulminea gli spezzò la spina dorsale. Quell’immagine mi straziò il cuore. Mi ossessiona ogni giorno, dopo tanti anni”. Avrei preferito non leggere mai questa storia. Ma sento anche di essere grato a Mattei, per questa delicatezza d’animo.
IO CONFESSO: SONO STATO UN TORTURATORE DI GATTI… PERDONATE!
Per la verità, ho un’altro personale tormento del quale devo assolutamente dirvi: si sa, delle “ossessioni” ci si libera parlandone. Ammettere certe cose pubblicamente ha se non valore autoassolutorio, almeno il senso di un mea culpa, di una purificazione penitenziale. A mia eventuale discolpa aggiungo solo che ero piccolo, avrò avuto un 10 anni, ed ero stato addestrato come tutti i bambini del Salento all’avversione viscerale e priva di senso verso i gatti. Che a prescindere andavano in malomodo scacciati dai giardini, e se c’era l’occasione malmenati brutalmente, possibilmente uccisi.
Ero impregnato anch’io della ferocia della civiltà contadina moriente, civile in tutto meno che con gli animali (e certe volte con le donne). Lasciamo stare le esche di pasta avvelenata che mi lasciavano prepare e poi depositare sui muri, di modo che i gatti di passaggio ne potessero mangiare e morirne: non so se lo hanno mai fatto… mettendoci la candeggina dentro suppongo, per via dell’odore acuto, ne abbiano volentieri fatto a meno di gustare la mia pietanza (se non fosse che i gatti sono attratti dall’odore della candeggiana che gli ricorda quello dell’urina dei loro simili con annessi ormoni da richiamo sessuale). Non è questo. Il fatto è quest’altro.
Una vigilia di natale stavo facendo i soliti casini sul tetto della casa. Avevo in mano una lunga tavola con all’estremità tre chiodi con la punta sporgente, e arrugginita. D’improvviso mi schizza davanti un gatto rosso. Che cercava di scappare nel giardino del vicino. Istintivamente lo colpii sul dorso con quella tavola chiodata. Non so se trafissi il gatto, non lo voglio sapere. Fatto sta che, forse (e spero) solo per l’urto, cadde giù per un quasi quattro metri nel cortile di un vicino. Poi sparì. Quando ci ripenso mi si accappona la pelle e mi si stringe il cuore: non me lo perdono mai. Ho sempre sognato, sperato, dopo, di non aver mai trafitto con i chiodi arrugginiti quel povero micio sul dorso (e quindi colpendo organi vitali lì collocati, poi seppi). Che si è preso magari solo un bello spavento e una brutta caduta, ma nulla di più. E che se non l’ho mai più rivisto è perchè per paura e prudenza, si teneva a debitissima distanza dal mio tetto. E da me.
Qui pure: sacrilegio, oltraggio, lesa maestà, tentativo di deicidio (forse riuscito forse no). E anche qui nemesi divina, maledizione, penitenza, riparazione, espiazione, punizione tremenda: io, proprio io, sarei stato tormentato fino alla fine da questo rimorso; io, proprio io, sarei stato condannato a vita ad amare, allevare ed essere schiavo del gatto. E come non bastasse, a soffrire ferocemente per tutte le violenze e le offese dell’uomo verso il gatto, anche non c’entrando io nulla. Un dio vendicativo il gatto, un giudice terribile. Ma giusto. Salomonico. La sua misericordia è consistita, nonostante tutto – nonostante anche il mio status, che al cospetto dei suoi occhi di divin sovrano era solo quello di schiavo, condannato ai lavori forzati al suo porco servizio –, a non negarmi la sua amicizia sovrana. Certo, mantenendo le debite distanze di casta, evitando le eccessive confidenze: dovevo pur rendermi conto che era sì un’amicizia la sua, ma un’amicizia fra impari, una concessione graziosa, che cadeva dall’alto in basso. E io ero quello che stava in basso. Lui era Dio. Che regnava se non dall’alto dei cieli, sicuramente dall’alto di un armadio o di un muretto. Per tutto ciò che è stato: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa!
E COSÌ GIUNSI NELLA CITTÀ DEI PAPI, DEGLI IMPERATORI E… DEI GATTI: ROMA!
Ma non crediate che la mia avversione indotta e irrazionale verso il gatto sia finita dopo questa vicenda: all’epoca anzi ne ero orgoglioso: era il mio trofeo di caccia al gatto (anche se mia madre comunque mi rimproverò). Almeno quanto ero fiero per le lucertole che privavo della coda, chiudevo vive in barattoli come anche api e vespe, e li le lasciavo morire. Per tacer delle lumache: aspettavo tirassero fuori la testolina dal guscio e, trac!, con un’ascia le decapitavo; quando addirittura con un accendino non bruciavo le loro corna (che poi sono anche io loro occhi). Stante tutte queste cose, la mia avversione per i gatti continuò anche una volta arrivato a Roma, il regno dei gatti (finché non è diventato anche – e poi solamente – il regno dei cinesi, dopodiché “misteriosamente” sono spariti la metà degli antichissimi sovrani romani, numi tutelari della Città Eterna), la loro città, città gattofila per eccellenza, che dinanzi a loro si leva tanto di cappello. Che spadroneggiano su ogni monumento all’altezza del loro prestigio e anche nella case della metà dei romani. Hanno scelto fra tutte le città del mondo proprio la città dei papi e la capitale del cristianesimo, il cuore dell’impero più antico nobile e grande mai apparso sulla terra e la città degli imperatori, per bivaccarci in fitta schiera… rifletteteci!
No: li odiavo pure giunto a Roma i gatti: ed ormai ero bello cresciutello, parecchio. Ma man mano, osservando la delicatezza dei romani verso di loro, la mia avversione si smussò, si addolcì almeno. Nel senso che aveva perso gli spigoli sadici. Nel senso che non desideravo più fargli del male, ma fargli dispetti e insolentirli sì. Ma poi d’incanto incontrai un’amore (un altro!) che per tradizione famigliare amava i gatti, che ne avevano sempre avuti in casa, purtroppo quasi tutti morti tragicamente. Un loro persiano, vedendo un piccione sulla ringhiera del balcone, d’istinto gli saltò addosso. Purtroppo era il balcone dell’ottavo piano. E il persiano precipitò giù, di muso, morendo all’istante. Lì per lì risi cinico al racconto, irritando la ragazza “sei un terrone del cazzo!” sibilò: era vero, ero ancora troppo terrone e poco romanizzato. Ma poi piano piano… riuscì a farmeli avvertire simpatici, simpatici e misteriosi i gatti. In un febbraio prima sciroccoso e poi nevoso, mentre ero seduto sul letto infreddolito, guardando Un Borghese piccolo piccolo, mi venne voglia di sentire il tepore di un gatto da carezzare… ma questa è un’altra storia. La prossima storia, nel prossimo articolo (la parte seconda, se avrò voglia di scriverla)…
IL GATTO NON CAPISCE LE COSE IRRAGIONEVOLI. ED È TERRORIZZATO DALLA VIOLENZA
Perchè racconto di questi orrori? Perché sopra ogni altra cosa, frequentandoli da anni, dei gatti un particolare mi ha colpito. Il più divino di tutti. Cristiano persino. Il gatto è un animale che non capisce ciò che è irragionevole, illogico, gratuito: dinanzi a gesti inconsulti di tale natura resta sgomento. Rimane sorpreso dalla stupidità molesta. Soprattutto è un animale che ha terrore e orrore della violenza: ogni gesto aggressivo nei suoi confronti, quando sente di non meritarlo affatto, che non ha giustificazione alcuna, gli getta il tumulto nel cuore. Uno strazio atterrito lo stravolge quando un improvviso scatenarsi di violenza ottusa nei suoi confronti lo coglie in una sorpresa tragica: non se l’aspettava! È ogni sua improvvisata reazione di difesa, appare inadeguata, fragile, patetica da far tenerezza. E gli va in frantumi rovinosamente sotto gli occhi suoi e dell’aggressore il segreto della sua “forza” temibile, che altro non è che un giocattolo costruito da se medesimo, un animale intuitivo, intelligente e geniale: marchingegno la cui molla sta tutta nella simulazione e dissimulazione, nel farsi apparire per quel che non è o non è più: una tigre. Troppo piccola ed esile per far paura davvero ai nemici veri.
E lo stesso vale quando due persone, al suo cospetto, osano diventate aggressive l’una verso l’altra. In questi momenti bisogna guardarlo negli occhi improvvisamente umani e cristiani il gatto: e capisci in che pozzo di amarezza è caduto. In che sgomento. In quale terrore panico. Sono occhi pieni di scandalo. E ci vedi il riverbero dei palpito del suo cuore, gonfio del senso grandioso del suo io offeso da tanta volgarità, della sua immensa dignità ferita. Come per un sovrano che viene dileggiato da un suddito; come due servi che osano venire alle mani al cospetto del loro re. Profanatori nel tempio del Nome del Santo davanti ai suoi tabernacoli, ecco cosa sono per lui. Il gatto, dunque è terrorizzato dalla violenza. La capisce dentro un contesto di caccia, ma non fuori da questo: nel primo è ragionevole, nel secondo è irragionevole. E i gatti, dicevamo, non comprendono le cose irragionevoli.
A proposito di cose irragionevoli. Leggo su un libro: Un gatto inscenerebbe più che volentieri la caccia al topo con una foglia secca, se non fosse che qualche stupido essere umano sarebbe subito pronto a dirgli: “Adesso uccidilo. Uccidi il topo!”. E allora lui gli dovrebbe dire con sdegno: “Il topo? Ma non vedi che è una foglia secca!”
COME OGNI DIO, PURE IL GATTO INFLIGGE CASTIGHI AI SACRILEGHI
Nessun gatto rinuncerà mai al suo ancestrale ricordo di divinità e regalità antiche sì ma non passate, vivenaturaliter se nonformaliter. La sua natura divina e regale la indossa come pelle, l’ha nel sangue, nella pupilla vitrea e densa con cui osserva il mondo, gli uomini e le altre bestie. Sentendosi diverso da tutti. Essendo da tutti diverso: solo davanti a lui si sono inchinati i faraoni, ed erano i re dei re: ce lo ricorda in ogni momento il gatto, come il suo trofeo maggiore.
E giacchè è e si sente un dio, come ogni divinità che si rispetti il gatto non rinuncerà neppure, appena si sarà ridestato dallo schok, al castigo divino che abbatterà, tremendo e inaspettato, su chi gli ha mancato di rispetto. Una vendetta che naturalmente avrà premura di servirti su un piatto freddo, quando te ne sarai scordato. Anche se magari l’oltraggiosa violenza è scoppiata fra due persone e non contro di lui: hanno comunque il torto di essersi picchiati sotto i suoi occhi superiori, offenden dolo.
Così a me è capitato spesso, durante una burrascosa relazione, di picchiarmi reciprocamente con l’amata-odiata, davanti a lui. Finito il tafferuglio (e qualche volta è finito in prontosoccorso), sfinito mi stendevo sul letto, a riprendere fiato dopo la colluttazione. E mentre stavo già rilassandomi, dopo un quarto d’ora, mezzora… era un attimo: fulmineo il gatto zompava sul letto e mi infilava senza misericordia i denti nel braccio… rischizzando immediatamente via. Fra le mie urla furibonde. Calmatomi di nuovo, dopo aver minacciato di morte il gatto, facevo per andare in bagno… un improvviso agguato alle mie spalle… e zac!!… i canini del gatto infilati nel mio polpaccio. Il tempo di girarmi per individuarlo e magari lanciagli qualcosa, un vaso, una sedia addosso, era già sparito, infilato chissà dove. Mi aveva punito due volte in mezzora: puniva non entrambi i lottatori, ma per due volte uno solo di essi. Più tardi ho scoperto la simbologia segreta di questo suo strano rituale punitivo: perchè morde solo uno dei che si menavano? Mordeva due volte uno soltanto per punire materialmente quello che aveva iniziato la lite, il secondo morso che ti dava non era per te, ma per colpire solo simbolicamente anche l’altro, che aveva l’attenuante di non aver cominciato per primo ma che comunque era colpevole di averla proseguita. Dopo avermi punito ed essere scampato egli stesso alle mie ire, aveva riguadagnato l’autostima. La riparazione era compiuta in grande stile. E l’illusione della sua divina impunita onnipotenza, era salva.
NEMESI DIVINA
A proposito di faraoni. L’altro giorno vedo una foto strana: un gatto che in tutta tranquillità attraversa il presbiterio dove il vicario del papa, il cardinale Ruini, sta celebrando una messa. Anzi, si ferma addirittura prospieciente il celebrante. Non ho potuto fare a meno di pensare, con un sorriso machiavellico, alla lunga storia non proprio edificante gatti-cristianesimo. Posto la foto sul mio facebook con questo titolo: “La vendetta del gatto”. E il seguente commento: “Questo che è fra gli esseri più divini, anzi, che è stato la divinità stessa per secoli, antica natura celeste della quale serba ricordo nella sua regale ed istintiva eleganza, all’improvviso precipitò in un baratro di sfortuna. Nei secoli cristiani, specie a opera dei protestanti, fu precipitato dal rango di dio a quello infamante di demone, anzi, a principe dei demoni: primeggiante e regale anche nel male. E proprio in quei secoli in cui fu così oltraggiata la sua antica natura divina, lesa la sua maestà naturale, la sua vendetta sarà tremenda: massacrati in Europa milioni di gatti, si decuplicarono i topi, e da lì trionfarono per secoli a intermittenza pandemie pestilenziali, che proprio i nemici del gatto, i topi, diffondevano. Per ogni 100mila gatti uccisi, ci saranno 1 milione di morti per peste”.
Nemesi divina! E diabolica.
Prendo a caso dalla mia biblioteca uno dei tanti libri sui gatti. Apro e leggo: “Dio ha creato i gatti perchè gli uomini potessero accarezzare le tigri”. Laus Deo! Ma solo le tigri? A volte viene un atroce sospetto a chi sta a lungo vicino a questi esseri speciali: che Nostro Signore si sia camuffato con splendidi baffi, una variopinta pelliccia e una lunga, morbida coda.
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